Testo critico
Questi pochi versi, tratti da un poema di Fujiwara Teika, autore giapponese vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo, evoca il principio estetico e filosofico su cui si fonda la tecnica Raku, il wabi.
A partire dal XVI secolo la nuova arte giapponese del Raku (tradizionalmente associata al culto del tè) rappresentò un’innovazione profonda, e cioè la valorizzazione formale del senso di imperfezione,
di irregolarità, di incompletezza, l’assenza di fiori, di aceri rossi, solo una capanna, quella del poeta, il suo unico luogo.
L’estetica wabi nella tecnica Raku, con la sua ‘bellezza distorta’, si intreccia alle esperienze più vive dell’arte del Novecento europeo: la forma della tazza Raku dialoga con le forme dell’astrattismo e del primitivismo, ha in sè l’espressionismo della pittura materica e l’essenzialità dell’arte povera.
Giorgio Azzaretti si avvicina all’estetica Raku e ne assorbe le forme interiori, astratte; la sua è una ricerca nella materia quale sensazione personale e assoluta, da imprimere sulla realtà. L’acquisizione di una tecnica nata molti secoli fa, proveniente da migliaia di chilometri di distanza, non è in lui imitazione, non è ricezione di modelli intatti, come avviene spesso nella ‘contaminazione’ culturale delle forme tipica di questi ultimi decenni; è invece appropriazione di uno strumento di espressione che nei suoi principi è magmatico, informale, incompleto, in attesa di una mano plasmatrice che può essere solo quella dell’artista. Le opere di Azzaretti accolgono un’esperienza umana e quindi eccezionalmente locale, è la creazione di un artista che trasmette il suo luogo intimo, trasmette l’arte della tecnica Raku solo dopo la propria unica arte.
– Roberto Vetrugno